In Italia se ne discute ancora poco. Eppure il pinkwashing è un fenomeno ampiamente diffuso e riconosciuto all’estero.
Proviamo a capire meglio. In genere si tende ad identificare il colore rosa con temi legati all’emancipazione femminile e altri nobili cause relative all’universo donna.
Ma NON è questo il caso. Purtroppo.
Perché il pinkwashing riguarda pratiche di marketing giudicate come scorrette. Perlomeno dal punto di vista etico-morale.
Vuoi saperne di più? Non resta che proseguire con la lettura.
Iniziamo pure.
In pochi punti:
Che cos’è il pinkwashing, a cosa serve e come funziona
Il termine pinkwashing nasce – agli inizi degli anni 2000 – dalla fusione di due parole inglesi.
PINK (rosa) e WHITEWASHING da whitewash (imbiancare o nascondere).
A coniarlo è stata l’associazione Brest Cancer Association per indicare determinate azioni a scopo di lucro.
Ovvero campagne pubblicitarie e promozionali che strumentalizzano la lotta contro il cancro – e per esteso altre cause femministe – per vendere di più.
Secondo il dizionario della lingua italiana l’espressione si riferisce infatti:
all’utilizzo dell’emancipazione femminile o di prese di posizione a favore della donna per fini commerciali.
https://aaa.italofonia.info
Molto probabilmente, se lavori nel marketing hai già sentito parlare di greewashing.
Bene. Si fa per dire ovviamente.
In pratica sono la stessa cosa. Uno sfrutta le tematiche ambientali. L’altro quelle connesse al mondo delle donne.
Pinkwashing o rainbow washing?
Ci teniamo a precisare.
Il termine pinkwashing viene usato anche per descrivere strategie di marketing che fanno leva su istanze LGBT.
Cioè campagne gay-friendly che non servono tanto a sensibilizzare l’opinione pubblica quanto – piuttosto – ad aumentare i consensi. A migliorare la cosiddetta immagine aziendale.
In realtà esiste un’espressione più specifica: rainbow washing. L’origine è evidente.
La bandiera arcobaleno è il simbolo universale dell’orgoglio e dei diritti gay. Perlomeno da qualche decennio a questa parte.
Qualcuno ricorda il panino LGBT della catena inglese Marks & Spencer?
Gli ingredienti erano quelli di un sandwich classico. La confezione a strisce multicolor… un esempio lampante di rainbow washing.
Naturalmente le polemiche sono state numerose e da più fronti.
Cosa vuol dire pinkwashing per aziende e consumatori
Cerchiamo di comprendere le due posizioni in campo.
Per le aziende il pinkwashing è una semplice strategia di marketing.
Una delle tante a disposizione. Che – se ben gestita – porta visibilità, un ritorno di immagine positivo e maggiori guadagni.
Mentre per molti consumatori (o quantomeno per i più avveduti) si tratta di qualcosa di sbagliato.
Perché? Beh… per quanto detto finora.
Pinkwashing significa essenzialmente MERCIFICAZIONE di temi importanti.
Ma attenzione. Esiste un compromesso. Quale?
Niente di complicato. Almeno in teoria. Agire con onestà e nella coerenza del messaggio trasmesso.
Le imprese devono portare avanti le cause di cui si sono fatte portabandiera. Sul serio e fino in fondo.
Magari devolvendo in beneficenza parte dei proventi.
I brand oggi si trovano quasi costretti a mostrarsi a favore di determinate cause. Questo naturalmente non giustifica un impegno solo di facciata. Le aziende devono portare avanti il loro impegno attraverso gesti concreti.
Lorenzo Ferrari, CEO & Founder di smarTalks
A onor del vero – come direbbe Alessandro Manzoni – alcune aziende hanno mostrato di aver capito la lezione. O forse sono sempre state sincere… chi lo sa?!
Ma in che modo lo hanno fatto?
Appellandosi all’aiuto di influencer, testimonial famosi o reputati come esperti di settore.
Parliamo di personaggi noti al grande pubblico che “ci hanno messo la faccia”.
Per garantire sull’onestà delle iniziative intraprese.
Come difendersi dal pinkwashing, rischi e pericoli
La domanda è chiara. Però preferiamo mettere le mani avanti. È difficile dare una risposta risolutiva.
Insomma, non esiste un manuale che contenga regole precise da seguire.
Allora come possiamo proteggerci dal pinkwashing nel marketing? Prendere le giuste cautele?
Bisogna informarsi. Possibilmente consultando fonti attendibili.
L’obiettivo è diventare consumatori consapevoli, critici. Che non si lasciano abbindolare dalla pubblicità con due parole ben messe e un’immagine ad hoc, ruffiana.
Il rischio – infatti – è quello di fare scelte d’acquisto sbagliate.
Mostrando una sorta di empatia solidale verso aziende che NON sono davvero coinvolte. Ma sfruttano questioni sociali e civili, a immediata risonanza mediatica, solo per trarne un profitto economico.
Vuoi un consiglio? Visita il sito dell’Unione Nazionale dei Consumatori.
Trovi articoli, approfondimenti e altre notizie utili sull’argomento. E anche su come difendersi dalle pubblicità ingannevoli.
Qualche esempio per capire
Abbiamo spiegato che cos’è il pinkwashing e come difenderci.
Ma, per comprendere veramente di cosa stiamo parlando, è sempre meglio guardare alle grandi campagne pubblicitarie e alle strategie di marketing scelte da alcune aziende (se o poco riuscite lo giudicheranno posteri e bilanci).
Ti proponiamo due esempi. Uno italico e uno d’oltreoceano.
- Nel 2021 per le strade di Roma compaiono i pullman rosa della speciale 8M Linea Fuxia ATAC. L’idea è quella di proporre un tour dei luoghi simbolo del femminismo presenti nella Capitale.
L’iniziativa viene subito tacciata di pinkwashing. Soprattutto da associazioni e gruppi schierati contro la violenza di genere e per i women’s rights come la Casa Internazionale delle Donne. - La catena americana KFC torna spesso nei nostri articoli. Nel bene e nel male. In questo caso… nel male.
È il 2010 e il re del pollo fritto annuncia una partnership con Komen, associazione impegnata nella lotta al tumore al seno. I secchielli si tengono di rosa e l’azienda promette di donare 50 centesimi per ogni contenitore venduto.
Qual è l’inghippo? In molti sottolineano la correlazione esistente fra consumo di cibi grassi, ad alto contenuto calorico, e cancro.
Insomma, vince la contraddizione logica.
P.S.
Se mastichi un po’ di inglese… dai un’occhiata alla pagina Facebook Pinkwashing Wall of Shame.
È una denuncia, aperta e senza filtri, sull’ipocrisia di molte campagne attive sul fronte pinkwashing.
Leggere per credere.
Conclusioni
Insomma, il pinkwashing può essere considerato come una sorta di femminismo di facciata.
Ma per certi versi – e in certi casi – è anche peggio. Perché banalizza l’essere donna a scopo prettamente commerciale. Per vendere.
E tu cosa ne pensi? Qual è la tua opinione al riguardo?
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